Diffamazione o ingiuria?

Si redige un parere sulle differenze che sussistono tra diffamazione e ingiuria, nonché sui presupposti giuridici per esercitare l’azione di risarcimento dei danni.

A) DIFFERENZE TRA DIFFAMAZIONE E INGIURIA

In primo luogo, occorre tratteggiare le diverse differenze che sussistono tra i due istituti.

La diffamazione è un reato previsto dall’art. 595 c.p., il quale stabilisce che: “chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a mille trentadue euro”. Tratti distintivi della presente disciplina risultano essere non solo la comunicazione tra più persone (minimo due), ma anche il fatto che tale condotta persegua lo scopo di offendere persone non presenti poiché o assenti fisicamente o non in grado di percepire l’offesa.

Diversa dalla diffamazione risulta essere, invece, la fattispecie dell’ingiuria, che si verifica quando l’offesa viene recata al decoro, o all’onore, di una persona presente in quel determinato momento. Tale istituto non rappresenta più un reato in quanto l’art. 4 comma 1 lett. a) del D.lgs. n. 7 del 2016 ha stabilito che: “soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro cento a euro ottomila chi offende l’onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa”.

B) L’ESIMENTE DELLA PROVOCAZIONE

Ad ogni modo, per tali istituti, il legislatore prevedeva due possibili esimenti, disciplinate entrambe dall’art. 599 c.p. Con tale locuzione, nella legge italiana, si identificano tutte quelle particolari situazioni il cui verificarsi rende lecito un fatto che integra una fattispecie di reato.

Per ciò che attiene la fattispecie dell’ingiuria, l’art. 599 comma 1 c.p. (abrogato in seguito al già citato D.lgs. n. 7 del 2016) stabiliva che “nei casi preveduti dall’articolo 594, se le offese sono reciproche, il giudice può dichiarare non punibili uno o entrambi gli offensori”.

Per quanto riguarda, invece, il reato di diffamazione, l’art. 599 comma 2 prevede, tuttora, che “non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’articolo 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”.

Alla luce di quanto detto, occorre verificare se le esimenti in questione si possano ancora applicare all’istituto dell’ingiuria, nonostante la sua depenalizzazione.

L’art. 4 comma 2 del D.lgs. n. 7 del 2016 prevede, infatti, che “se le offese sono reciproche, il giudice può non applicare la sanzione pecuniaria civile ad uno o ad entrambi gli offensori”,confermando quanto era disciplinato dal vecchio art. 599 comma 1 c.p. La disposizione del 2016, però, specifica anche che “non è sanzionabile chi ha commesso il fatto previsto dal primo comma, lettera a), del presente articolo, nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”(art. 4 comma 3).

Sulla base di quanto suesposto, risulta chiaro come il decreto in questione abbia adattato i contenuti normativi dell’art. 599 c.p. al nuovo contesto della tutela sanzionatoria civile: si prevede, infatti, che il giudice possa non applicare la sanzione pecuniaria civile sia in caso di ritorsione (articolo 4, comma 2), che in caso di provocazione (articolo 4, comma 3)

L’ormai noto art. 4 comma 3 del D.lgs. n. 7 del 2016 prevede, però, tre presupposti necessari affinché l’esimente della provocazione possa essere applicata all’illecito civile dell’ingiuria: lo stato d’ira, il fatto ingiusto altrui e il rapporto di causalità psicologica.

Tutto ciò è stato, di recente, confermato dalla giurisprudenza, secondo la quale  "ai fini della configurabilità dell'attenuante della provocazione occorrono: a) lo "stato d'ira", costituito da un'alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il "fatto ingiusto altrui"; b) il "fatto ingiusto altrui", che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell'ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell'imputato e alla sua sensibilità personale; c) un “rapporto di causalità psicologica” e non di mera occasionalità tra l'offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l'una e l'altra condotta (Cass. Pen., Sez. V, 11 giugno 2020, n. 17958).

Lo stato d’ira rappresenta l’elemento soggettivo. Esso è costituito da una situazione psicologica caratterizzata da un impulso emotivo incontenibile che, determinando la perdita dei poteri di autocontrollo, genera un forte turbamento.

Il fatto ingiusto altrui è, invece, l’elemento oggettivo. Esso è costituito non solo da un comportamento antigiuridico in senso stretto, ma anche dall’inosservanza di norme sociali o di costume regolanti l’ordinaria, civile convivenza. Tale definizione è stata ripresa dalla Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che l’esimente della provocazione sussiste “non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi di un illecito codificato, ma anche quando consiste nella lesione di regole di civile convivenza, purché apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo, con conseguente esclusione della rilevanza della mera percezione negativa che di detta violazione abbia avuto l'agente” (Cass. pen., Sez. V, 11 maggio 2018, n. 21133).

Infine, fondamentale per l’applicazione dell’esimente in questione risulta essere la presenza di un rapporto di causalità tra il fatto ingiusto e l’ingiuria. Sul punto, giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere necessaria non tanto l’istantaneità della reazione, quanto piuttosto l’immediatezza della stessa, immediatezza intesa come “legame di interdipendenza tra reazione irata e fatto ingiusto subito, sicché il passaggio di un lasso di tempo considerevole può assumere rilevanza al fine di escludere il rapporto causale e riferire la reazione ad un sentimento differente, quale l’odio o il rancore”(Cass. pen., Sez. V, 24 febbraio 2016, n. 7244).

C) RISARCIMENTO DEI DANNI PER INGIURIA

In merito alla richiesta circa un possibile risarcimento dei danni in seguito a un’ingiuria, l’art. 3 del più volte menzionato D.lgs. n. 7 del 2016 specifica espressamente come “i fatti previsti dall’art. 4 della medesima disposizione, se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, ma anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita”.

Il punto cruciale, però, per riuscire ad ottenere un risarcimento dei danni per ingiuria riguarda l’onere della prova. La Corte di Cassazione, infatti, intende assicurare continuità al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, recentemente confermato, secondo cui “il danno non patrimoniale da lesione di diritti fondamentali, quale tipico danno conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse(ovvero non è in re ipsa) e, pertanto, deve essere allegato e provato da chi chiede il risarcimento”(Cass. pen., Sez. III, 18 gennaio 2018, n. 907).

Una volta provato il fatto e di aver subito un danno, sarà anche necessario quantificare l’eventuale risarcimento. Tale compito spetta al Giudice, il quale, a seconda delle prove fornite dalla parte, ha modo di stimare con maggior precisione e cognizione il valore dell’ingiustizia portata dinanzi al suo giudizio. Nel caso in cui, però, lo stesso Giudice non riuscisse a quantificare il danno, potrebbe comunque decidere in via equitativa.

Sul punto risulta, dunque, evidente come all’offensore spetti non solo una sanzione pecuniaria civile in favore della Cassa delle ammende, ma anche un risarcimento del danno in favore della parte offesa.

Dott. Francesco De Grandi

(Trainee Lawyer)

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