Il trasferimento di azienda e gli effetti giuridici sui rapporti di lavoro

Si analizzano oggi le modalità e conseguenze della cessione d’azienda, nonché i riflessi di tale trasferimento nei rapporti di lavoro.

Preliminarmente bisogna definire che cos’è la cessione d’azienda, i suoi presupposti e le conseguenze giuridiche di tale negozio.

 Ai sensi dell’art. 2112 comma 5 c.c. si intende per trasferimento d’azienda «qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto d’azienda». È ammesso anche il trasferimento di un ramo d’azienda, intesa come «articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata».

La cessione d’azienda avviene in forma scritta, con atto pubblico o con  scrittura privata autenticata e, ai fini pubblicistici, deve essere trascritta presso il Registro delle Imprese ove è iscritto il cedente: se ciò non accade avrà valore l’iscrizione del cessionario.

 I presupposti affinché vi possa essere una cessione d’azienda sono:

- l’autonomia funzionale del ramo ceduto, che deve essere in grado di provvedere già al momento del trasferimento dal complesso cedente, ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, e di svolgere autonomamente il servizio o la funzione cui era adibito prima della cessione (Cfr Corte di Cass. Civ. 8/11/2018, n. 28593; Corte di Cass. Civ. 8/3/2006, n. 5038). Vi deve essere, dunque, una preesistente realtà produttiva, mentre non può costituire cessione di ramo d’azienda e integra una violazione dell’art. 2112 c.c., la creazione di una struttura ad hocin occasione del trasferimento;

- il mutamento del datore di lavoro;

- trasferimento dei beni facenti parte il complesso aziendale;

- cessione dei contratti in essere con la clientela;

- mantenimento della medesima attività del cedente, nonché lo stabile e il luogo di lavoro.

L’aspetto di maggior rilievo in caso di cessione d’azienda è in relazione ai rapporti di lavoro dei lavoratori che, ai sensi dell’art. 2112 comma I c.c., continuano con il cessionario e i lavoratori conservano tutti i diritti che ne derivano.

Ai sensi dell’art. 2112 comma II c.c., il cessionario e il cedente sono obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento a prescindere dalla conoscenza o conoscibilità degli stessi da parte del cessionario. Tuttavia, si presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento, sicchè non vi sarà responsabilità solidale nel caso di crediti relativi ai rapporti di lavoro esauritasi o non ancora costituitisi a tale momento, salva in ogni caso l’applicabilità dell’art. 2560 c.c.. Tale articolo prevede la responsabilità del cessionario per i debiti dell’azienda ceduta, ove risultino dai libri contabili obbligatori. Tale norma è di carattere eccezionale, non suscettibile di applicazione analogica, sicchè non si riferisce a nessun altro tipo di documento quali ad esempio registri Iva, Libro Unico del Lavoro (Cfr Corte D’Appello Bologna, 18/4/2006).

Inoltre, «l'iscrizione dei debiti inerenti all'esercizio dell'azienda ceduta nei libri contabili obbligatori, è elemento costitutivo della responsabilità dell'acquirente dell'azienda e, data la natura eccezionale della norma, non può essere surrogata dalla prova che l'esistenza dei debiti era comunque conosciuta da parte dell'acquirente medesimo». (Corte di Cass., Sezioni Unite, 5/3/2014, n. 5087 e Corte di Cass.
10/11/2010, n. 22831).

Rimangono soggetti alla disciplina dell’art. 2560 c.c. anche i debiti contratti dalla cedente nei confronti degli istituti previdenziali per l’omesso versamento dei contributi obbligatori, esistenti al momento del trasferimento. In tal caso non può operare l’automatica estensione di responsabilità del cessionario ex art. 2112 comma II c.c. sia perché la solidarietà è limitata ai crediti di lavoro del lavoratore e non è estesa ai crediti di terzi, come gli enti previdenziali, sia perché il Lavoratore non ha diritti di credito verso il datore di lavoro per l’omesso versamento dei contributi obbligatori, restando estraneo al cosiddetto rapporto contributivo, che intercorre fra l’ente previdenziale e il datore di lavoro (Cfr Corte di Cass. 16/6/2001, n. 8179).

Per quanto riguarda i crediti derivanti  dal TFR, gli orientamenti giurisprudenziali sono essenzialmente due, di cui il secondo divenuto oramai prevalente:
1. Il primo orientamentoafferma che il cessionario è da considerarsi unico debitore del TFR, anche per il periodo passato alle dipendenze del cedente, atteso che solo al momento della risoluzione del rapporto matura il diritto del lavoratore al suddetto trattamento, del quale la cessazione del rapporto è fatto costitutivo del diritto stesso. Una cosa è, infatti, il diritto del lavoratore ad ottenere le necessarie informazioni sulle quote (e sulle componenti) del trattamento accantonate, altra cosa è il diritto del medesimo lavoratore a conseguire la liquidazione dell’emolumento (o parte dello stesso, nei casi previsti dal comma 6° e ss. dell’art. 2120 c.c.), dal momento che l’accantonamento delle quote opportunamente rivalutate è uno strumento solo contabile che non vale a mettere a disposizione del dipendente la somma relativa (Cass. 9 agosto 2004, n. 15371; Cass. 13 dicembre 2000, n. 15687; Cass. 14 dicembre 1998, n. 12548; Cass. 27 agosto 1991, n. 9189);

2. Il secondo orientamentoafferma che il datore di lavoro cedente è obbligato, al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, anche se successivo al trasferimento stesso, al pagamento delle quote di TFR maturate fino alla data del trasferimento d’azienda. Tale considerazione sorge dalla valutazione del TFR quale retribuzione differita, che sorge con la costituzione del rapporto di lavoro e matura in ragione dello svolgimento della prestazione lavorativa attraverso il meccanismo dell’accantonamento, diventando così esigibile solo al momento della risoluzione del rapporto di lavoro stesso.

Per il credito del lavoratore derivante dal TFR sussiste, inoltre, il vincolo di solidarietà tra cedente e cessionario previsto dall’art. 2112 comma II c.c..
Quanto alla quota di TFR maturata nel periodo del rapporto successivo al trasferimento d’azienda, unico obbligato è, invece, il cessionario (Corte di Cass. 11/9/2013, n. 20837; Corte di Cass. 14/5/2013, n. 11479; Corte di Cass. 22/9/2011, n. 19291; Corte d’ App. Milano n. 618/2014).

Proseguiamo ora l’analisi dell’art. 2112 c.c..

Ai sensi dell’art. 2112 comma III c.c., il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza.

Il quarto comma del suddetto articolo prevede che il trasferimento non possa costituire un motivo di licenziamento. Nel caso di licenziamento illegittimo intimato dal cedente e basato unicamente sul fatto del trasferimento deve riconoscersi la nullità del recesso per violazione di tale norma imperativa. La nullità comporta la prosecuzione, ope legis, del rapporto di lavoro con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che aveva verso il cedente (Cfr. Corte di Cass. 28/2/2012, n. 3041).

Se, quindi, il trasferimento d’azienda non può costituire motivo legittimo di risoluzione del rapporto, non si esclude, tuttavia, la possibilità, sia in capo al cedente che in capo al cessionario, di attuare licenziamenti, in forma individuale o collettiva, qualora sussista un giustificato motivo oggettivo e nel rispetto della disciplina e delle procedure previste dalla normativa vigente in materia.

La cessione di azienda può, infatti, concorrere a costituire giustificato motivo di licenziamento del lavoratore da parte dell’imprenditore cedente, qualora quest’ultimo possa dimostrare la sussistenza della necessità di provvedere, al fine di attuare la cessione, ad un ridimensionamento dell’aspetto organizzativo dell’azienda, afferente al personale occupato, avendo il cessionario accettato l’operazione solo a condizione di una preventiva e drastica riduzione dei dipendenti dell’azienda medesima, non potendosi in tal caso sindacare la volontà del cessionario di organizzare l’attività produttiva della propria impresa secondo modelli ritenuti più opportuni (Cfr Corte di Cass. 9/9/1991, n. 9462).

Può altresì accadere sovente che le parti inseriscano nell'atto di cessione di azienda una clausola dal seguente tenore letterale: “le parti convengono che, per effetto della presente cessione, la parte cessionaria non subentri alla cedente nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa ad eccezione dei contratti e rapporti elencati nel prospetto allegato. In merito a ciò, la parte cedente dichiara e garantisce alla parte cessionaria che alla data odierna non è in corso alcun rapporto di lavoro con dipendenti e/o collaborazioni di qualsiasi genere e natura. La parte cedente manleva la cessionaria da ogni responsabilità inerente a contratti di lavoro pregressi alla consegna dell’azienda, facendosi carico di ogni e qualsiasi onere e pretesa derivante a qualsiasi titolo o ragione da tali rapporti di lavoro, sia verso i dipendenti o altre persone aventi diritto sia verso gli istituti di previdenza e assistenza preposti”.

In tal caso si fa rilevare che l’art. 2112 c.c. è una norma imperativa a cui i datori di lavoro non possono derogare, avendo il dettame la finalità di garantire la maggior tutela della posizione del lavoratore che risulta inerme alle scelte datoriali. Pertanto una ipotetica clausola contrattuale dal citato tenore è affetta da vizio di nullità in quanto posta in violazione di quanto  stabilito dall’art. 2112 c.c.

Si badi che la nullità parziale, però, «non importa la nullità dell’intero contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative», ovvero dall’art. 2112 c.c.. 

Dott. Giulia Sari

Trainee Lawyer

 

 

 

 

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