Licenziamento per carcerazione del lavoratore

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (c.d. GMO) avviene a causa di vicende o eventi che, incidendo sulla realtà aziendale in cui il lavoratore è inserito, determinano l’effettiva esigenza del datore di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro.

Rientrano generalmente nell’ambito del giustificato motivo oggettivo sia i licenziamenti intimati in relazione all’insorgere di specifiche esigenze aziendali (come la crisi dell’impresa), sia i licenziamenti che traggono origine da comportamenti facenti capo al lavoratore, che non integrano una forma di inadempimento, ma che incidono sul regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro (come impossibilità sopravvenuta della prestazione in seguito a carcerazione del lavoratore).

Dopo aver definito la fattispecie, occupiamoci ora della procedura che il datore di lavoro con più di 15 dipendenti a carico deve seguire nel caso in cui intenda licenziare un lavoratore per GMO (art. 7 della legge n. 604/1966).

Per prima cosa, egli deve inviare una comunicazione preventiva sia all’ITL (Ispettorato Territoriale del Lavoro) sia al lavoratore, al fine di promuovere un tentativo di conciliazione, e contenente: a) l’intenzione di procedere al licenziamento; B) i motivi del provvedimento; c) le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore stesso.

A questo punto, l’ITL trasmette la convocazione dell’incontro di conciliazione al datore di lavoro e al lavoratore nel termine perentorio di 7 giorni, incontro che si svolge presso la Commissione provinciale di conciliazione.

Se la conciliazione ha esito positivoe si arriva ad un accordo per la risoluzione consensuale del rapporto, il lavoratore ha diritto all’indennità di disoccupazione e può essere previsto il suo affidamento a un’agenzia del lavoro al fine di favorire la sua ricollocazione professionale.

Solo se la conciliazione ha esito negativo, o in caso di mancata convocazione nel termine da parte dell’ITL entro 7 giorni, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore.

La già menzionata procedura di conciliazione, però, non deve essere osservata nelle seguenti ipotesi (art. 7 comma 6 L. 15 luglio 1966, n. 604; art 7 comma 4 DL 76/2013 conv. in L. 99/2013): a) licenziamento per superamento del periodo di comporto; b) licenziamento al termine di un appalto, qualora, in attuazione di clausole sociali o contrattuali sia prevista la ricollocazione del lavoratore presso il nuovo appaltatore; c) interruzioni del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e chiusura del cantiere; d) licenziamenti per GMO di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ai quali si applica la nuova disciplina delle c.d. “tutele crescenti”.

In tutti gli altri casi tale procedura di conciliazione non solo risulta essere obbligatoria, ma rappresenta una condizione di procedibilità ai fini dell’intimazione del licenziamento, il cui mancato rispetto comporta l’inefficacia del recesso (Cass. civ., sez. lav., 14 ottobre 2020, n. 22212, in Cassazione.net). Il datore di lavoro, infatti, incorre in una violazione procedurale rilevante ai fini dell’applicazione della tutela contro il licenziamento illegittimo (Cass. civ., sez. lav., 28 marzo 2019, n. 8660, in Giustizia Civile Massimario 2019).

Lo stato di detenzione del dipendente per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro non costituisce un inadempimento agli obblighi contrattuali e, quindi, non rappresenta una giusta causa di licenziamento. La carcerazione, infatti, rappresenta una sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione ex art. 1464 c.c., che consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel caso in cui emerga che non persiste l’interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente.

Tale principio è stato confermato dalla giurisprudenza la quale ha affermato che “la carcerazione del lavoratore per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro - sia essa preventiva o per esecuzione di pena - si traduce in un fatto oggettivo che determina l'impossibilità sopravvenuta parziale (ratione temporis) della prestazione lavorativa, a norma dell'art. 1464 c.c., rispetto alla quale l'apprezzabile interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente deve essere valutato in base a criteri oggettivi, riconducibili alla previsione di cui alla seconda parte dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, cioè con riferimento alle esigenze dell'impresa che configurino un giustificato motivo obiettivo di licenziamento”(Cass. civ., sez. lav., 23 giugno 1992, n. 7668, in Not. Giur. Lav., 1992, p. 662; Cass. civ., sez. lav., 9 giugno 1993, n. 6409, in Giustizia Civile Massimario1993, p. 1006).

Più di recente, la Corte di Cassazione è intervenuta nuovamente sul punto stabilendo che “la sottoposizione del lavoratore a carcerazione preventiva per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove, in base ad un giudizio ex ante, tenuto conto di ogni circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell'assenza (tra cui le dimensioni dell'impresa, il tipo di organizzazione tecnico-produttiva, le mansioni del dipendente, il già maturato periodo di sua assenza, la ragionevolmente prevedibile ulteriore durata dell'impedimento, la possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni), non persista l'interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente”(Cass. civ., sez. lav., 10 marzo 2021, n. 6714, in Giustizia Civile Massimario 2021).

Dopo aver catalogato la disciplina dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione all’interno del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, analizziamo ora la procedura che il datore di lavoro deve applicare. In particolare, ci si è interrogati sulla possibile estensione alla fattispecie de quo dell’art. 7 comma 6 L. 15 luglio 1966, n. 604, disciplinante il procedimento da seguire in caso di licenziamento per GMO.

Sul punto la dottrina si è affannata per dissolvere i dubbi circa la reale volontà del legislatore, che dal tenore letterale della norma non sembra nemmeno essersi posto il dubbio, di includere tutte le ipotesi di giustificato motivo oggettivo individuate dalla giurisprudenza ancorché riferentesi al profilo del lavoratore (inidoneità fisica sopravvenuta, carcerazione preventiva, revoca del porto d'armi per la guardia giurata...) oppure se limitare l'iter procedurale ai soli licenziamenti "per motivi economici" ovvero solo a quelli relativi alle dinamiche aziendali.

L’art 7 comma 4 DL 76/2013 interviene per risolvere tale dubbio.

In particolare, viene previsto che la procedura di conciliazione non trovi applicazione:

- in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto di cui all'art. 2110 c.c.;

- per i licenziamenti e le interruzioni del rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui all'art. 2, comma 34, della L. n. 92/2012 e cioè: a) licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; b) interruzione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel settore delle costruzioni edili per completamento delle diverse fasi lavorative e chiusura del cantiere.

Nel paragrafo precedente abbiamo osservato come, in via generale, la carcerazione del lavoratore costituisca un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione e che, quindi, rientri nella categoria del licenziamento per GMO.

La dottrina e giurisprudenza minoritaria ritengono, invece, che in alcuni casi il recesso datoriale causato dalla carcerazione del lavoratore possa ricadere nell’ambito del licenziamento disciplinare (giusta causa o giustificato motivo soggettivo); tali sono le ipotesi in cui il procedimento penale a carico del dipendente evidenzia la gravità della condotta del lavoratore al punto tale da pregiudicare il legame fiduciario tra lo stesso e il datore di lavoro.

Vediamo, a questo punto, la procedura che il datore di lavoro deve seguire in caso di licenziamento disciplinare (art. 7 della L. 300/1970).

La prima fase della procedura licenziamento disciplinare è il richiamo disciplinare o lettera di contestazione, cioè il mezzo scritto attraverso il quale il datore di lavoro comunica al dipendente la sua intenzione di licenziarlo. Essa ha la funzione di “indicare con precisione il fatto contestato e la violazione dei doveri che esso implica al fine di consentire la difesa del lavoratore(Cass. civ., sez. lav., 29 marzo 2006, n. 7221, in Giustizia Civile Massimario 2006).

Una volta ricevuta la contestazione, il lavoratore entro 5 giorni può produrre le proprie difese e controdeduzioni.  Egli, entro la scadenza di detto termine, potrà o non giustificarsi o giustificarsi per iscritto o chiedere un’audizione orale.

A questo punto, il datore di lavoro, ricevute le eventuali difese del lavoratore, valuta se adottare o meno il provvedimento disciplinare espulsivo e, in caso affermativo, procede all’irrogazione del licenziamento. Il licenziamento deve essere comunicato al lavoratore tempestivamente e, a pena di inefficacia dello stesso, in forma scritta, con la specificazione dei motivi che lo hanno determinato.

Dopo avere analizzato la procedura che il datore di lavoro deve seguire in caso di licenziamento disciplinare, vediamo se tale procedimento si debba applicare anche nel caso di carcerazione del dipendente.

In caso di carcerazione preventiva, infatti, il datore di lavoro è tenuto ad osservare la disciplina racchiusa nell’art. 7 della L. 300/1970.

Tale principio ha trovato conferma in una pronuncia del Tribunale di Milano dove è stato previsto che anche nel caso di licenziamento intimato in ragione della custodia cautelare in carcere cui sia stato sottoposto il lavoratore, il datore di lavoro è tenuto al rispetto delle regole in materia di licenziamenti disciplinari stabilite dall’art. 7, legge n. 300 del 1970 (Tribunale Milano, 5 luglio 2005, Est. Peragallo, in Orient. Giur. Lav. 2005, 925). In particolare, il Tribunale ha affermato che in ogni caso in cui il licenziamento sia intimato per ragioni disciplinari o per una condotta colpevole del lavoratore esso deve essere irrogato nel rispetto delle regole dettate dall’art. 7 L. 300/1970 a pena di invalidità dello stesso e l’applicazione delle conseguenze previste dall’art. 18 L. 300/1970 (Corte Cost., 30 novembre 1982, n. 204, in Foro it.,1983, I, 854, con nota di De Luca e in Giur. It, 1983, I, 1, 1345, con nota di Lambertucci)

Alla luce di quanto finora esposto, concludiamo affermando che la carcerazione del dipendente può portare sia ad un’impossibilità sopravvenuta della prestazione (tesi maggioritaria) sia ad un licenziamento disciplinare (tesi minoritaria). In ogni caso, comunque, il datore di lavoro ha l’obbligo di rispettare le apposite procedure di licenziamento al fine di garantire il diritto di difesa.

Dott. Francesco De Grandi

(Trainee lawyer)

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