Coronavirus: effetti dell’emergenza sanitaria sul contratto di locazione ad uso non abitativo.

Con il presente parere ci si propone se vi sia, o meno, il diritto della conduttrice di omettere o sospendere il pagamento nei contratti di locazione di immobili ad uso diverso da quello abitativo nei mesi di lock-downdovuti al Coronavirus.

Tale situazione d’emergenza sanitaria, da un punto di vista fattuale e giuridico, ha parzialmente compromesso la fruibilità di tutti gli immobili destinati ad attività colpite dalla chiusura forzata dei diversi DPCM susseguitisi nel periodo de quoe, pertanto, nel corso della trattazione del presente approfondimento si analizzerà quali diritti sorgono in capo al conduttore e i rispettivi rimedi individuati dal Legislatore.

Preliminarmente occorre precisare che la locazione di immobili ad uso diverso da quello abitativo postula la concessione in godimento al conduttore di beni destinati ad attività economiche, sia relative al lavoro autonomo che a quello imprenditoriale.

Fornita tale precisazione sul contratto di locazione di immobile ad uso diverso da quello abitativo, si passa all’analisi delle tre differenti argomentazioni giuridiche che il conduttore potrebbe addurre al fine di omettere o sospendere il pagamento del canone di locazione:

1) l’impossibilità sopravvenuta ad adempiere;

2) parziale impossibilità sopravvenuta ad adempiere;

3) l’eccessiva onerosità sopravvenuta nei contratti a prestazioni corrispettive.

1) IMPOSSIBILITA’ SOPRAVVENUTA AD ADEMPIERE

Una delle argomentazioni giuridiche che il conduttore potrebbe addurre al fine di omettere o sospendere il pagamento dei canoni di locazione è quella fondata sull’impossibilità sopravvenuta ad adempiere all’obbligazione pecuniaria.

Preliminarmente appare doveroso fornire un breve accenno alla definizione di obbligazioni pecuniarie, le quali si caratterizzano per il fatto di avere ad oggetto una somma di denaro.

Tali obbligazioni si suddividono in obbligazioni di valutae le obbligazioni di valore: le prime sono assoggettate al principio nominalistico ed hanno ad oggetto, fin dal principio, una somma di denaro determinata(si pensi a chi si obbliga a pagare cento euro)  o determinabile(si pensi a chi si obbliga a pagare al professionista l’onorario dovuto o a chi  si obbliga a corrispondere il 20% del guadagno totale realizzato); le seconde, invece, si sottraggono all’applicazione del principio nominalistico, in quanto hanno ad oggetto l’equivalente in denaro di un certo bene (si pensi alle obbligazioni risarcitorie, il cui ammontare equivale all’effettivo valore del danno cagionato che occorre reintegrare: ad esempio, il responsabile di un incidente stradale che ha distrutto una moto di proprietà altrui, è tenuto ad elargire una somma di denaro che sia idonea a compensare la diminuzione patrimoniale patita dal danneggiato).

Fornita la definizione di obbligazioni pecuniarie, occorre analizzare quanto previsto all’art. 1256 c.c..

Ai sensi dell’art. 1256 c.c. “L'obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile. Se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Tuttavia, l'obbligazione si estingue se l'impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla”.

In primo luogo occorre distinguere le due differenti fattispecie delineate dal citato articolo: la prima viene integrata ogniqualvolta per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventi impossibile; la seconda, invece, viene integrata nel caso in cui l’impossibilità è solo temporanea e, in tal caso, il debitore non è responsabile del ritardo nell’adempimento fintanto che essa perdura.

Delineate le due fattispecie di cui all’art. 1256 c.c., occorre poi chiedersi in quali circostanze la sopravvenuta impossibilità della prestazione possa ritenersi non imputabile al debitore e, quindi, incolpevole.

A tal proposito, si ritiene che l'esenzione da responsabilità da illecito contrattuale del debitore inadempiente discenda non solo da una sopravvenuta impossibilità assoluta, ma anche a fronte di cause impeditive della prestazione non prevedibili e non superabili con la dovuta diligenza (come ad esempio impedimenti esterni ed ineludibili che sfuggono al controllo dell'obbligato) come nei casi di forza maggiore derivante da eventi naturali o da provvedimenti dell'autorità (factum principis).

Doveroso precisare la nozione di factum principis, che si qualifica come una particolare speciesrispetto algenusdella forza maggiore, e per la quale si intende una causa di impossibilità oggettiva derivante da un sopravvenuto atto della pubblica autorità - ossia emanato da organi dotati di potere normativo che si impongono sull’autonomia privata - che renda impossibile per il debitore effettuare una prestazione.

In particolare per far si che tale evento esoneri il debitore della prestazione da responsabilità per l’inadempimento occorre che il factum principissia del tutto estraneo alla volontà dell’obbligato e ad ogni suo obbligo di diligenza.

Operate tali doverose premesse, in tema di omissione o sospensione del pagamento del canone di locazione di immobile ad uso diverso da quello abitativo, il conduttore dovrà dimostrare che i provvedimenti dettati da interessi generali e di ordine pubblico (tali parrebbero essere quelli emanati per l’emergenza Covid-19) hanno reso impossibile la sua prestazione indipendentemente dal suo comportamento, costituendo un’ipotesi di forza maggiore – rectiusfactum principis -e, dunque, un’esimente della sua responsabilità ad eseguirla.

È bene precisare che l’impossibilità che estingue l’obbligazione deve intendersi in senso assoluto e obiettivo, verificandosi solo quando la prestazione ha per oggetto la consegna di una cosa determinata o di un genere limitato, e non già il pagamento di una somma di denaro.

L’obbligazione pecuniaria, sia essa di valore o di valuta,non può estinguersi per impossibilità sopravvenuta della prestazione: è sempre possibile, infatti, reperire denaro, data la sua convertibilità in tutti i beni presenti e futuri (cfr. Cass. sent. n. 25777/2013, in www.dirittoprivatoinrete.it)

Le argomentazioni sostanziali del conduttore a sostegno della sopravvenuta impossibilità a corrispondere il canone si fondano sull’impossibilità di utilizzazione della prestazione offerta dal locatore, giacché il medesimo non può, per una causa a lui estranea, usare l’immobile per la ragione per cui lo ha affittato.

Si badi, però, che in tal caso il conduttore continua ad avere la disponibilità dell’immobile locatogli, venendo meno solo la possibilità che questa disponibilità realizzi lo scopo perseguito con la stipulazione del contratto.

Di fatto, pertanto, il conduttore patisce una diminuzione della controprestazione/obbligazione pattuita, non già la sua completa estinzione.

Ebbene in tale caso non è consentito al conduttore di astenersi dal versare il canone, ovvero di ridurlo unilateralmente.

Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che “al conduttore non è consentito di astenersi dal versare il canone, ovvero di ridurlo unilateralmente, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene, e ciò anche quando si assume che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore. La sospensione totale o parziale dell'adempimento dell'obbligazione del conduttore è, difatti, legittima soltanto qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo altrimenti un'alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti. Inoltre, secondo il principio inadimplenti non est adimplendum, la sospensione della controprestazione è legittima soltanto se è conforme a lealtà e buona fede” (Cass. n. 261/2008, in www.webgiuridico.it).

Ed ancora “in tema di locazione di immobili urbani per uso diverso da quello abitativo, la cosiddetta autoriduzione del canone (e, cioè, il pagamento di questo in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita) costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore, che provoca il venir meno dell'equilibrio sinallagmatico del negozio” (Cass. sent.  n. 10639/2012, in www.dejure.it).

Sotto altro aspetto occorre soffermarsi sul principio di lealtà e buona fede nell’esecuzione del contratto.

Costituisce principio generale del diritto delle obbligazioni quello secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375).

Tale principio assume diversi significati nel nostro ordinamento, occorrerà pertanto operare una preliminare distinzione tra buona fede oggettiva e soggettiva.

Nel significato soggettivola buona fede fa riferimento allo stato psicologico della parte che ignora di “ledere” un altrui diritto, mentre nel suo significato oggettivola buona fede impone di modellare il comportamento degli obbligati alle regole di lealtà, onestà e correttezza così da porre in essere una condotta che, non determinando un apprezzabile sacrificio personale, assicuri all’obbligato di adempiere alla propria obbligazione.

L’accezione oggettiva di tale principio, in tema di contratti, dovrà declinarsi in una reciproca lealtà di condotta nell'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione, nella sua interpretazione ed in ogni sua fase (cfr. Cass. sent. n. 5348/2009; Cass. sent. n. 15476/2008, in www.diritto.it).

Dal punto di vista sostanziale occorre analizzare quando, in tema di contratti di locazione ad uso non abitativo, l’interruzione dell’obbligazione pecuniaria da parte del conduttore possa essere ritenuta conforme a lealtà e buona fede.

In tema di omissione o sospensione del pagamento del canone di locazione di immobile ad uso diverso da quello abitativoil conduttore è tenuto a provare che la propria interruzione del pagamento del canone di locazione sia dovuta ad un riequilibrio delle rispettive prestazioni locatore-conduttore.

Nel caso in cui vi sia prova del fatto che il conduttore continui a godere normalmente del bene locato, però, è evidente che nessuno squilibrio si è verificato nel rapporto obbligatorio tra le parti, rendendo ingiustificata la condotta del locatore che interrompa il pagamento dell’obbligazione pecuniaria.

La Suprema Corte ha confermato tale principio, chiarendo che l’interruzione del pagamento del canone di locazione da parte del conduttore non è conforme al principio di lealtà e buona fede “se il conduttore continua a godere dell'immobile, e al momento in cui gli è chiesto il pagamento del canone, assume l'inutilizzabilità del bene all'uso convenuto, perchè in tal modo fa venir meno la proporzionalità tra le rispettive prestazioni. Dunque in tal caso, per conformare il suo comportamento a buona fede, può soltanto chiedere una riduzione del canone proporzionata all'entità del mancato godimento, ovvero può chiedere la risoluzione del contratto” (Cass. sent. n. 16918/2019, in www.dejure.it).

Orbene a fronte di tale condotta tenuta dal conduttore è sempre legittima la reazione del locatore che, attraverso il ricorso allo speciale strumento processuale dello sfratto per morosità ovvero del decreto ingiuntivo, tenti di recuperare il proprio credito.

In tale situazione di emergenza sanitaria, però, occorre tener conto di quanto statuito dell’art. 91 del Decreto “Cura Italia” che, nell’integrare l’art. 3 del D.l. n. 6 del 23/02/20, così prevede al comma 6 bis: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o pena li connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

La dottrina, tenendo conto di tale statuizione, ha prospettato come “fintanto che perduri il lockdown, il ritardo nel pagamento dei canoni non dovrebbe configurare una responsabilità in capo al conduttore, il quale, però,al momento della cessazione dello stato emergenziale e a seguito della ripresa dell’attività, dovrà corrispondere quanto non versato, rimanendo esonerato soltanto dal pagamento degli interessi per il ritardo”(L. Falappi, “La rinegoziazione del contratto di locazione al tempo del Coronavirus”, in Rassegna di Giurisprudenza e Dottrina, Apr. 2020, p. 18).

Più stringente, invece, è l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza sull’art. 3, comma 6 bis,del D.l. n. 6 del 23/02/20, la quale ha chiarito che la norma deve far riferimento “non a una generica impossibilità di adempimento in conseguenza della pandemia, ma alla sopravvenuta impossibilità del debitore di adempiere a causa delle restrizioni su di lui gravanti in quanto impostegli dall’autorità”. Peraltro nel caso esaminato il Tribunale di Bologna ha avuto cura di precisare che se l’attività del conduttore non è stata inibita dalla normativa emergenziale, l’articolo de quonon sarà da lui invocabile (Trib. Bologna, ord. 11 maggio 2020, in www.ilsole24ore.it).

Pertanto la tempestiva formalizzazione del conduttore al locatore della decisione di sospendere il pagamento del canone è idonea esclusivamente a sospendere le azioni giudiziarie del locatore contro di esso nel periodo del lockdown, non già ad estinguere la sua obbligazione di corrispondere il canone per il suddetto periodo: alla ripresa dell’attività, infatti, il locatore potrà nuovamente esigere il pagamento dei canoni sospesi.

2) PARZIALE IMPOSSIBILITA’ SOPRAVVENUTA AD ADEMPIERE

Un’ulteriore ipotesi ha le sue fondamenta giuridiche nell’art. 1464 c.c., il quale disciplina la fattispecie in cui l’impossibilità di una delle due parti risulta parziale, sancendo che “l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale”.

In via preliminare occorre riprendere la definizione di “factum principis”.

Quest’ultima, come già esposto in precedenza, rappresenta un’ipotesi di forza maggiore che ricorre quando determinati provvedimenti legislativi o amministrativi, emanati dopo la conclusione del contratto, per interessi generali (come appunto la tutela della salute pubblica) rendano oggettivamente impossibile l’esecuzione della prestazione, in modo temporaneo o definitivo, indipendentemente dalla volontà dei soggetti obbligati.

Fornita tale definizione appare doveroso valutare se le restrizioni in tema di Covid-19, che hanno di fatto previsto la parziale inibizione dell’attività professionale o produttiva di alcuni dei conduttori di immobili ad uso non abitativo, abbiano avuto dei riverberi sul rapporto di prestazione-risultato del contratto di locazione di immobile ad uso non abitativo stipulato, incidendo sull’utilità e l’utilizzabilità della prestazione eseguita dai locatori a discapito dei conduttori.

Vediamo nel dettaglio.

Si parta da una rilettura sistematica e funzionale del contratto volta a recuperare l’interesse del creditore alla prestazione di cui all’art. 1174 c.c. che, nell’orbita dell’accordo, diviene una componente della causa dello stesso, precipuamente quella di “evidenziare la rilevanza che l’interesse del creditore ha non solo sul sorgere dell’obbligazione, quanto sulla sua stessa persistenza” (F. ROLFI, Funzione concreta, interesse del creditore ed inutilità della prestazione: la Cassazione e la rielaborazione del concetto di causa del contratto, in Corr. giur., 2008, p. 932).

Tale prospettiva non risulterebbe affatto peregrina, atteso che sul postulato della causa contrattuale come “scopo pratico del negozio” si è ormai consolidato in giurisprudenza un indirizzo ermeneutico meritevole di attenzione in merito alla caducazione dei contratti di viaggio “tutto compreso” ai sensi dell’art. 1463 c.c. per sopravvenuta inutilizzabilità della prestazione da parte del viaggiatore creditore (cfr. Cass. sent. n. 18047/2018, in www.diritto.it).

Da questo orientamento si può intuire come il concetto di prestazione-risultato non può essere insensibile a fatti o atti sopravvenuti che ineriscano alla sfera giuridica del creditore, pur non essendogli imputabili.

Da tale tesi si estrapola un principio generale volto ad equiparare l’impossibilità della prestazione all’inutilizzabilità della stessa, o meglio impossibilità di fruirne: con specifico riguardo ai contratti di locazione ad uso diverso da quello abitativo è palese la non indifferenza dell’attività svolta dal locatario all’interno dell’immobile locato.

In tal caso l’impossibilità temporanea di fruizione della prestazione per cause non ascrivibili al creditore genera una parentesi temporale nella quale il contratto non è in grado di realizzare la sua funzione ed è in relazione a tale lasso di tempo che è necessario apportare dei correttivi che riequilibrino l’alterazione sinallagmatica. Nei contratti di durata, infatti, l’atto negoziale è concepito per realizzare il suo scopo nel tempo e senza incontrare impedimenti, così giustificando la possibilità di mantenere salda la prefata equiparazione operata dalla giurisprudenza, mutatis mutandis.

Pertanto, a fronte di una inutilizzabilità soltanto temporanea, è opportuno rievocare un autorevole tesi dottrinaria concernente l’applicazione del diritto di riduzione della prestazione di cui all’ art. 1464 c.c., letto in combinato disposto con l’art. 1258 c.c., anche in caso di impossibilità temporanea della prestazione nei contratti di durata.

Segnatamente si ritiene che se si è in presenza di un contratto di durata con termine finale a data fissa in cui il sinallagma consista in una prestazione periodica di una somma di danaro a fronte di un facerecontinuativo della controparte e la prestazione di fare diventi temporaneamente impossibile a causa di impedimenti sopravvenuti, la parte vincolata all’esborso del danaro può chiedere una riduzione dei ratei proporzionata al segmento della controprestazione andata perduta (cfr. U. CARNEVALI, Contratti di durata e impossibilità temporanea di esecuzione, in Contr., 2000, p. 115 ss.).

Questa riduzione altro non sarebbe che una risoluzione pro parteper una impossibilità parziale ratione temporis.

Sulla base di tale impostazione dottrinale il conduttore potrebbe avanzare una richiesta di riduzione del canone di locazione dell’immobile ad uso commerciale pari al periodo in cui non ha potuto fruire dello stesso: nel caso di specie, quindi, si creerebbe in capo ad esso il diritto di omettere completamente il canone per i mesi di marzo ed aprile

3) L’ECCESSIVA ONEROSITÀ SOPRAVVENUTA NEI CONTRATTI A PRESTAZIONI CORRISPETTIVE

Al fine di valutare le argomentazioni giuridiche prospettabili dal conduttore in tema di omissione o sospensione del pagamento dei canoni di locazione, altra tematica meritevole di approfondimento è quella inerente l’eccessiva onerosità sopravvenuta nei contratti a prestazioni corrispettive.

Preliminarmente occorre fornire la definizione di contratto a prestazioni corrispettive, nel quale il tempo non serve tanto a determinare il momento dell'inizio dell'esecuzione (per cui esso non è soltanto un termine), quanto piuttosto un elemento necessario (e non quindi puramente accidentale) per entrambi i contraenti, perché con esso ha da determinarsi la quantità della prestazione, il protrarsi o il reiterarsi dall'esecuzione (onde la durata attiene all'elemento causale): senza alcun dubbio il contratto di locazione di immobile ad uso commerciale può essere ricondotto sotto tale categoria di contratti.

Occorre inoltre precisare che il concetto di eccessiva onerosità sopravvenuta si sostanzia nella fattispecie in cui a causa di fattori esterni, imprevedibili e straordinari, una prestazione è diventata eccessivamente onerosa rispetto all’altra, determinando quindi un consistente squilibrio nel rapporto tra le parti, eccedente l’alea normale del contratto.

Operate tali precisazioni si passa all’analisi della disciplina.

L’art. 1467 c.c. dispone che “nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'articolo 1458. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.

Occorre soffermarsi sull’aspetto procedurale della norma in esame.

Dalla lettura dell’art. 1467 c.c. si evince chiaramente che al conduttore, la cui prestazione è divenuta eccessivamente onerosa, è attribuito esclusivamente — quando ricorrano determinati presupposti – il potere di chiedere al giudice la risoluzione del contratto.

Tale principio è stato recentemente confermato anche dalla Suprema Corte, la quale ha sancito che “nei contratti a prestazioni corrispettive la parte che subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, c.c., purchè non abbia eseguito la propria prestazione, ma non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione, ai sensi del comma 3 della medesima norma, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l’eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite” (Cass, Ord. n. 2047/2018, in www.mementopiù.it). 

Come è facilmente intuibile la materia è in continua evoluzione e si attendono nuove sentenze di merito in materia.

Dott. Alessandro Maggi (Trainee Lawyer Qualified)

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