La competenza territoriale nei licenziamenti disciplinati dal Jobs Act

Si vuole oggi approfondire la tematica della tutela applicabile in caso di licenziamento illegittimo dopo l’introduzione del Jobs Act, in particolar modo l'individuazione del Foro competente.

Si procede per punti.

L’art. 413 c.p.c., al comma 1, prevede che: “Le controversie previste dall'articolo 409 sono in primo grado di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro”.La norma attribuisce al Giudice monocratico la competenza in materia di controversie di lavoro in quanto il legislatore ha ritenuto che un organo individuale potesse soddisfare le esigenze di agilità e rapidità di giudizio che caratterizzanti il rito del lavoro.

L'art. 413 c.p.c., al comma 2 e ss., disciplina la competenza per territorio relativamente alle controversie in materia di lavoro. I diversi commi in questione indicano una serie di criteri da applicare per individuare il giudice territorialmente competente.

Il Giudice competente a trattare una causa di lavoro è quello “nella cui circoscrizione è sorto il rapporto di lavoro ovvero si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore al momento della controversia o presso cui prestava la sua opera al momento in cui il rapporto è cessato” (art. 413, comma 2, c.p.c.). E’ noto in proposito come, secondo la giurisprudenza del tutto prevalente (ma, contra, Cass. civ. sez. lavoro, 27.05.1997 n. 4683), tale disposizione individui tre fori concorrenti ed alternativi: quello del luogo in cui è sorto il rapporto, quello della sede dell’azienda, quello del luogo della dipendenza aziendale cui è addetto il Lavoratore.

Per determinare il luogo dove il rapporto debba dirsi sorto, al fine di individuare il Giudice territorialmente competente, occorre prendere le mosse dalle disposizioni dettate dal codice civile in tema di conclusione del contratto, ed in particolare dagli artt. 1326 e 1327: il rapporto di lavoro sorge infatti nel momento e nel luogo in cui si conclude il contratto tra datore di lavoro e lavoratore.

Abitualmente, tale contratto viene concluso per iscritto, sicché la norma cui occorre fare riferimento è rappresentata dall’art. 1326, I comma, cod. civ. (“Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte”).

Dunque, quanto al luogo della conclusione, occorre fare riferimento non certo a dove il lavoratore riceve la proposta (la lettera) di assunzione, ma a quello dove il datore di lavoro ha notizia della sua accettazione. Anche in tal eventualità, tuttavia, la corretta individuazione del foro competente potrebbe non essere semplice, atteso che dovrà essere considerata la qualifica del soggetto che per il datore di lavoro agisce. Rileva, infatti, se esso abbia o meno la rappresentanza del datore di lavoro: in tale ultima ipotesi, competente sarà il luogo della sede centrale del datore di lavoro.

In termini: Cass. civ. sez. lavoro, 18.05.1989 n. 2370: “Con riguardo a controversia di lavoro, luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro, ai fini dell’individuazione del giudice competente per territorio ai sensi dell’art. 413 c. p. c., va considerato non quello in cui il lavoratore riceve la lettera di nomina dell’ente, datore di lavoro (nella specie, banco di Napoli), sottoscrivendola per accettazione, ma quello della sede centrale dello stesso ente, nella quale si trova il competente ufficio od organo che riceve detta accettazione”. E ancora: la S.C con sentenza del 17.06.1982 n. 3700 ha precisato che: “Ai sensi dell’art. 413, 2° comma, c. p. c., per [individuare il luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro], ai fini della determinazione della competenza per territorio, deve intendersi non già quello in cui ha avuto inizio la prestazione lavorativa, bensì quello in cui il contratto di lavoro è stato stipulato e pertanto, se la stipulazione sia avvenuta per tramite di un agente senza rappresentanza del datore di lavoro ma con apposita lettera di accettazione del lavoratore, il luogo ove questa sia giunta a conoscenza del datore di lavoro”.

Detto ciò appare ora opportuno riepilogare brevemente il contratto a tutele crescenti e la disciplina del Jobs Act, che prevedeva sino al 2018 in caso di licenziamento illegittimo:

- per le aziende con più di 15 dipendenti, il pagamento di una indennità pari a 2 mensilità per ogni anno di anzianità da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità. Per intenderci, il dipendente con 3 anni di anzianità prendeva 6 mensilità in modo fisso, senza che il giudice potesse aumentare o ridurre la tutela;

- per le aziende con meno di 15 dipendenti, il pagamento di una indennità pari a 1 mensilità per ogni anno di anzianità da un minimo di 2 ad un massimo di 6 mensilità. Per intenderci, il dipendente con 3 anni di anzianità prendeva 3 mensilità in modo fisso.

Il Jobs Act è stato criticato da molti poiché avrebbe eccessivamente indebolito la tutela del dipendente licenziato in modo ingiusto. Secondo molti dati infatti, il Jobs Act ha fatto aumentare i licenziamenti dando alle aziende la sicurezza di dover comunque tirare fuori delle cifre esigue in caso di sconfitta nel processo di fronte al giudice del lavoro.

Pertanto, il D.L. 87/2018 (c.d. Decreto Dignità), pur confermando l’impianto generale previsto dal Jobs Act in tema di licenziamenti (compresa la scelta di ridurre i casi di applicazione della reintegra), ha aumentato la misura minima e massima dell’indennità risarcitoria (non assoggettata a contribuzione previdenziale) in caso di licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo e soggettivo.

Questi cambiamenti hanno un impatto diverso per le grandi e le piccole imprese.

Per le grandi imprese (con più di 15 dipendenti, secondo i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, comma 8 e 9, L. n. 300/1970), l’importo minimo del risarcimento del danno sale da 4 a 6 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio e l’importo massimo sale da 24 a 36 mesi, fermo restando il criterio di calcolo (2 mensilità per ogni anno di anzianità aziendale).

Per le piccole imprese (con meno di 16 dipendenti, secondo i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, comma 8 e 9, L. n. 300/1970), il risarcimento minimo sale da 2 a 3 mensilità, fermo restando il criterio di computo (1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio); resta invariato anche il tetto massimo di 6 (invariato) mensilità.

Oggi l’art. 3 del Decreto legislativo 04/03/2015, n. 23, così come modificato dal DL 87/2018, prevede che “Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.

Le nuove regole, in assenza di una diversa indicazione nel testo di legge, non hanno efficacia retroattiva, e quindi si applicheranno solo ai licenziamenti intimati dal 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del DL 87/218.  I licenziamenti irrogati precedentemente – anche in presenza di giudizi pendenti – resteranno, invece, soggetti al vecchio regime.

Oggi, paradossalmente, la tutela offerta dal Jobs Act potrebbe essere in certi casi superiore a quella offerta dal vecchio articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Nel settembre del 2018, infatti, la Corte Costituzionale ha emanato una sentenza (Corte cost., Sent., (ud. 25/09/2018) 08/11/2018, n. 194) che ha di fatto smontato il Jobs Act ed il criterio di calcolo dell’indennizzo che abbiamo visto.

La Corte costituzionale ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 3 D.Lgs. 23/2015, sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, D.L. 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2018, n. 96, limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,».

In particolare, secondo la Corte Costituzionale, è illegittimo il fatto che nel Jobs Act il numero di mensilità che riceve il dipendente in caso di licenziamento illegittimo si basi solo ed esclusivamente sul criterio dell’anzianità di servizio, soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata. Infatti il Jobs Act prevedeva un numero di mesi crescenti con il numero di anni di anzianità, in modo fisso.

Secondo i giudici della Consulta, invece, ci sono molti altri criteri di cui occorre tenere conto per stabilire qual è il danno che il lavoratore ha subito a causa del licenziamento illegittimo: “in una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima. All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza. La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse”.

La Corte Costituzionale ha quindi cancellato la parte del Jobs Act che prevedeva il meccanismo delle tutele crescenti, lasciando solo i tetti minimo e massimo del numero di mensilità pari, dopo l’intervento del Decreto Dignità, ad una forbice che va tra 6 e 36 mensilità.

La palla torna dunque al giudice che, all’interno di questi limiti, dovrà utilizzare, oltre a quello dell’anzianità di servizio, altri criteri (come le condizioni ed il comportamento delle parti, le dimensioni dell’azienda, i carichi di famiglia, ecc..) per stabilire qual è il numero di mensilità che è giusto riconoscere al dipendente in caso di licenziamento illegittimo.

Infine ritengo che sia utile menzionare anche l’art. 3 del D.Lgs. 23/2015, comma 3, ai sensi del quale “al licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 1 non trova applicazione l'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni”. L’art. 7 della L. 604/1966 prevedeva l’obbligo da parte del datore di lavoro di espletare la procedura conciliativa prima di procedere al licenziamento per g.m.o.Con il D.Lgs. 23/2015 questo obbligo è venuto meno e la conciliazione è prevista come mera facoltà offerta dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 7. Di conseguenza, sotto questo punto di vista, non ravviserei una violazione dell’iter procedurale da parte della società Resistente.

Dott. Emanuele giungi 

Trainee Lawyer

Condividi

Articoli recenti

Archivi

Tags